L’angolo delle interviste è uno spazio riservato ad alcune preziose testimonianze che i pazienti di CenTeR ci hanno permesso di pubblicare.
Il significato sta nel far capire quanto i disturbi alimentari non siano semplici “etichette” ma espressioni di una sofferenza da comunicare. Una sofferenza che ha un nome, una storia e un’evoluzione ogni volta diversi, ma sempre ugualmente importanti.
Buona lettura!
Intervista a G.
Nel percorso che stai seguendo, hai iniziato a sviluppare qualche idea sul perché sia successo tutto questo? Sei già arrivata a capire cosa avrebbe potuto crearti un disagio tale da allontanarti da ciò che sei veramente?
Penso che ci siano una serie di motivi, ma non uno scatenante in particolare: è semplicemente capitato in quel momento. Dopo una forte delusione d’amore, ho ricercato in famiglia un sostegno, un aiuto, e non c’è stato, quindi mi sono chiusa in me stessa, e da lì è partita la debolezza che ha permesso alla malattia di travolgermi. La malattia è come una gabbia, in cui io mi sentivo imprigionata, con il mondo al di fuori. Non vedevo interesse in quello che facevo, non vedevo la mia libertà, non vedevo l’orizzonte; ero chiusa dentro e non riuscivo ad uscirne. Adesso posso dire che vedo il mondo a colori, ma prima era tutto nero e offuscato. A livello fisico ero arrivata ad una magrezza estrema – ero quasi tredici chili in meno di quello che sono adesso. Ora sto meglio, sono rientrata nella normalità, ma avevo raggiunto un punto estremamente pericoloso, stavo per morire.
Quello che posso dire a chi si trova davanti ad una situazione simile è, anzitutto, di rivolgersi a persone esperte. Da soli non ce la si fa, e nemmeno con l’aiuto di chi ti sta vicino, come la famiglia e gli amici che, si, possono tirarti su, ma il disagio è una questione che coinvolge sia il corpo che la mente, e quindi tutta la sfera psicologica. È un insieme di cose, e le persone che hanno studiato questo contesto e la malattia possono aiutare.
Pensi che il giudizio degli altri, nel tuo caso ma non solo, sia uno dei fattori scatenanti di questi tipi di disagio? Sentirsi giudicati, o sapere che gli altri parlano, senza magari avere una chiara idea di come stiano le cose, aggrava i problemi?
Si, questo si, anche perché – mentre adesso, se mi giudicano o mi rivolgono una critica, so replicare poiché, bene o male so quello che sono e quello che valgo – quando si è all’interno della malattia, e ci si sente frustrato, debole e triste, ogni critica che ti viene fatta diventa un motivo per penalizzarsi, magari mangiando meno, come succedeva a me. È frustrante: era come se il problema fossi io.
Attribuire le cause del problema a se stessi sembra abbastanza comune in questi casi; dare un peso, anche eccessivo alla “ragione altrui” danneggiando sé stessi e accrescendo la frustrazione e la voglia di punirsi. Era così anche per te?
È proprio questo che intendo: ero diventata io il problema, e mi sentivo in colpa per tutto.
Approcciarti ad una realtà con persone qualificate, che hai già detto essere il modo migliore per affrontare i problemi, ti ha fatto capire meglio come stanno le cose? Oltre al recupero della forma fisica, stai percependo altri benefici?
Quando ero nel mezzo della malattia non mi rendevo assolutamente conto di niente, pensavo solamente di essere triste, e il mio corpo non era importante. Stavo peggio dentro di me, nei miei pensieri, più di quanto si vedesse da fuori e manifestassi con il corpo: e già il mio corpo, praticamente, non c’era. Rivolgermi al centro perché mi ero rivista nelle parole di altre ragazze, e in quello che i medici spiegavano riguardo alla malattia e a come ci si comportasse in questo caso, è stato necessario, perché ho voglia di vivere la mia vita. Mi sono detta “hai un mondo, una vita davanti”; è stato tutto in salita ma ho visto, in fondo, la luce.
Chi ha un livello di consapevolezza sufficientemente avanzato su quello che è stato, è e sarà, può porsi come fonte di ispirazione, proprio come nel tuo caso, attraverso l’informazione. Parlarne non è mai semplice, anche e soprattutto per chi non viene e non conosce appieno il mondo scientifico su cui la terapia si basa.
È stato la mia ancora di salvezza, lo spiraglio di luce quando sono arrivata al fondo e sentivo non potesse esserci di peggio per me. Mi sentivo estraniata dal mondo, ed ero il nulla più totale. Quando mi sono rivolta al centro, mi è stata fatta fare una linea del tempo, che mi è stata utilissima. Ho iniziato a ricostruire il mio passato, e a capire da cosa potesse essere scaturito tutto questo, rapportandolo con il mio presente. È stato bello capire quali erano i punti di questa linea che mi mettevano ansia, rabbia; erano queste le sensazioni predominanti, insieme alla paura, e per questo avevo colorato tutto di grigio e di nero. Anche quella grande delusione d’amore, l’abbandono che aveva scatenato l’insieme dei miei sentimenti negativi, aveva un colore grigio se ci ripenso: non era un bel ricordo.
Ascoltandoti, si direbbe che sei dotata di un buon livello di consapevolezza e forza. Prima di tutto questo tu ti reputavi tale?
No, anzi. Forse non mi ero mai nemmeno posta il problema, e vivevo tranquillamente; sono sempre stata bene con me stessa e con il mio corpo, che prima dei problemi non era un indicatore di come stavo per gli altri. Nella malattia è diventato un segnale per manifestare il mio disagio e richiedere aiuto agli altri, ma in modo involontario, quasi senza rendermene conto. L’abitudine a ridurre costantemente quello che mangiavo aveva creato un circolo vizioso. Adesso ho imparato a credere in me stessa e a volermi bene non solo come persona, ma anche al mio corpo, che è diventato parte di quello che sono, non una cosa distinta. Ora, dopo la malattia, credo di essere diventata una persona forte, pur mantenendo la tranquillità che è nel mio carattere.Ascoltandoti, si direbbe che sei dotata di un buon livello di consapevolezza e forza. Prima di tutto questo tu ti reputavi tale?
No, anzi. Forse non mi ero mai nemmeno posta il problema, e vivevo tranquillamente; sono sempre stata bene con me stessa e con il mio corpo, che prima dei problemi non era un indicatore di come stavo per gli altri. Nella malattia è diventato un segnale per manifestare il mio disagio e richiedere aiuto agli altri, ma in modo involontario, quasi senza rendermene conto. L’abitudine a ridurre costantemente quello che mangiavo aveva creato un circolo vizioso. Adesso ho imparato a credere in me stessa e a volermi bene non solo come persona, ma anche al mio corpo, che è diventato parte di quello che sono, non una cosa distinta. Ora, dopo la malattia, credo di essere diventata una persona forte, pur mantenendo la tranquillità che è nel mio carattere.
Intervista a S.
Che tipo di percorso è il “rendersene conto”? Quando iniziavi a provare delle difficoltà, com’era la tua percezione del disturbo alimentare?
Sapevo di avere non dico un problema, perché non lo percepivo come tale, ma una difficoltà. Il cibo mi creava un ostacolo, e non ero serena quando dovevo affrontare situazioni inerenti ad esso, specie in presenza degli altri. Ero consapevole di non seguire una dieta corretta, ma al tempo stesso non mi rendevo conto che fosse una cosa compromettente. Non vivevo tutto questo con ansia o preoccupazione, finché la cosa non si è protratta nel tempo: mi illudevo che avrei potuto superare l’ostacolo con il suo passare, e che le cose si sarebbero sistemate da sole, ma in realtà è stato un cronicizzarsi della cosa. Durante tutto il percorso universitario ho continuato a seguire questa pseudo dieta, fatta da me, completamente sbilanciata, che alternava fasi in cui andava meglio e riuscivo a mangiare anche quello che mi serviva, ad altre in cui, invece, era come se mi sentissi in dovere di punirmi.
Mia madre per tanti mesi ha provato a convincermi a rivolgermi ad una dietista, ad un medico e ad intraprendere una via alla quale continuavo a negarmi: dopo il percorso fatto in precedenza con la psicoterapia, mi sentivo più forte e credevo che avrei risolto, un po’ con il tempo, un po’ con la forza di volontà. Per farla contenta – e forse anche per concedermi una possibilità – ho deciso di venire qui. Non è stato facile all’inizio, ero molto scettica, e devo ammettere che, per tanto tempo, sono andata avanti per far piacere a chi mi suggeriva di farlo. Poi, con il passare del tempo, uso un’espressione un po’ particolare, ci ho preso gusto, nel senso che mi sono resa conto che forse quello che avevo iniziato non era così sbagliato. C’è voluto veramente tanto tempo: tutto il primo anno – è ormai da due che vado avanti – venivo qui senza essere troppo convinta della cosa, forse anche perché quella forza, quell’impulso che mi spingeva a punirmi, a condannarmi stava prendendo forza. Andando avanti ho capito che più lavoravo più andavo a scavare nelle mie difficoltà, del presente e del passato, e più arrivavo a scoprire qualcosa che da sola non avrei visto. Nei mesi ho scoperto tantissime cose di me stessa, ma anche di ciò che mi circonda: del mio modo di rapportarmi agli altri, della mia storia passata, di quanto il peso del passato influisca sul presente. Questo percorso di cura può aiutarmi a ritrovare quella forza che so di avere dentro, ma che da sola non riesco a far emergere. Di carattere, faccio difficoltà ad avere fiducia, un po’ per tutte le batoste che ho ricevuto nel passato, e un po’ perché ho anche la pretesa di volercela fare da sola: ad un certo punto, però, mi sono sentita completamente sola e indifesa, e ho capito che senza un aiuto non ce l’avrei fatta ad andare avanti. Mi ritengo veramente fortunata ad aver trovato delle persone che hanno saputo accogliermi, e per me è stato veramente importante saper di poter contare su questa ancora di salvezza, quando ho provato a tendere la mano fuori dal vortice in cui stavo scivolando. Soprattutto negli ultimi mesi, con l’intensificarsi del percorso, ho imparato tante cose, e sto lavorando anche sulla parte dietologica che avevo inizialmente accantonato, perché sentivo di non averne bisogno e di dover insistere soprattutto sul lato psicologico. Sto acquisendo gli strumenti per riuscire a mettere in atto quei comportamenti che so mi farebbero stare bene – ma a volte è come se ancora ci fosse una forza che mi trattiene, e quindi sto provando a controllarla. Io non penso che di questa malattia ci si possa liberare completamente, ma penso che si possa scendere ad un compromesso: capire che ci può essere la malattia, ma ci può essere anche Sandra. Sto lavorando per far sì che la forza che ho dentro mi aiuti a vivere serenamente, anche con le mie difficoltà; è un percorso lungo, sono cose che non si risolvono di certo da un giorno per l’altro, è un problema che sto portando avanti da tanti anni e so che farò difficoltà a sradicare, ma penso che il percorso di cura mi possa aiutare ad affrontarlo più serenamente, ecco.
Tu hai detto che ci può essere la malattia, ma ci puoi essere anche tu. Quanto la malattia ha influito nel raggiungimento dei risultati che hai ottenuto? Sono già questi obiettivi il frutto del compromesso di cui tu parli?
C’è un prezzo molto caro da pagare quando si convive con il disturbo alimentare. Il mio senso del dovere è accentuato al massimo, e questo, da un lato, mi ha permesso di ottenere risultati importanti a livello di carriera scolastica, universitaria e spero, in seguito, professionale, ma dall’altro mi ha portato a focalizzarmi troppo su ciò che dovevo fare e poco su quello che volevo fare. Non riuscivo a ritagliarmi spazi di piacere, né per me né per gli altri, e nella mia impossibilità a vedere qualcosa oltre a dovere, impegno, lavoro e studio, ho sempre sacrificato divertimenti, svaghi e tutte quelle cose che appartengono di più alle persone della mia età, e per questo mi sono sentita sempre un po’ tagliata fuori: diversa, ma non perché unica e con delle qualità importanti, diversa perché mancante di qualcosa che i miei coetanei avevano. Infatti ho sempre avuto più facilità a relazionarmi con persone più grandi di me. Non riuscire a ritagliarsi niente per sé, e sacrificare quello che si è per degli obiettivi che non dico siano fini a sé stessi, ma che non potrebbero esistere da soli. Nel mio percorso ho capito che il piacere è importante tanto quanto il dovere, e ho capito che io ho sempre dato troppo al secondo: questo mi ha portato a perdere gli amici e il desiderio di essere spensierata, per rifugiarmi nella realizzazione che l’eseguire quello che dovevo fare mi dava.
Tu segui questo percorso da due anni, e ti sta insegnando tanto. Ma dopo cosa vedi? Se il dovere ti focalizza sul presente, su quello che devi fare adesso, stai imparando a costruire una visione del futuro che non preveda solo questi elementi? Dove vedi la famosa luce in fondo al tunnel?
Sicuramente ho capito che c’è una direzione alternativa al buio che vedevo all’inizio: un’altra via, per quanto faticosissima da intraprendere. Impegnandosi, i risultati che questa via può dare sono molto più appaganti. La mia speranza è quella di arrivare a sentirmi più libera, e totalmente autonoma nella scelta di seguire quella luce; anche se il buio continua a volermi trascinare dall’altra parte, io sento sempre più di voler andare in quel senso. Voglio che diventi una scelta quotidiana e consapevole: è faticoso, vista l’intensità dell’altra forza e la facilità di cedervi, scivolare e lasciarsi andare, ma sto capendo che con un impegno costante, fatto di sacrifici e lacrime, passo dopo passo si può ottenere qualcosa. In questo momento il mio futuro è il bisogno di risolvere questa cosa, e di fare chiarezza, trovare serenità e armonia, perché, se non riesco a raggiungere un equilibrio in questo non riuscirò mai ad affrontare anche il resto serenamente. Paradossalmente in alcuni momenti viene spontaneo e risulta rassicurante aggrapparsi masochisticamente all’impulso che ti vorrebbe punire, schiacciare e mettere a tacere , però sto capendo che dentro di me ci sono anche le risorse per fare diversamente, fare qualcosa che mi faccia davvero stare bene. Penso che quindi il mio primo obiettivo per il futuro sia quello di arrivare a sentirmi meglio, per poter affrontare quelli che sono i miei progetti lavorativi con più serenità, arrivando a godermeli, perché ottenere risultati senza riuscire a sentirli fa veramente male, e a quel punto non vale neanche la pena aver lavorato tanto.
Adesso che il tuo percorso è diventato sempre più una scelta consapevole, pensi che sia importante, per le persone che non riescono ancora a farlo, arrivare a fare questa scelta? Come si può consigliare loro di chiedere aiuto?
Capisco la difficoltà e la fatica, perché per me è stato altrettanto difficile e faticoso concedermi questa possibilità; però solo andando avanti nel percorso mi sono resa conto che è una possibilità di vita, e che non significa arrendersi o rassegnarsi; ho imparato che da soli non si va da nessuna parte. Con questa malattia, ad un certo punto, è come se una parte di te non reggesse più, sia una questione di corpo o di mente, è come un cortocircuito. Per questo serve qualcuno che ti dia una direzione o, perlomeno, ti apra un ventaglio di possibilità. Nel mio percorso non sono mai stata obbligata a fare nulla, bensì molto assecondata. La cosa più bella è sentirsi ascoltata per essere accolta, quello che fuori non riesco a sentire: è come se quello che provo e quello che dico, attraverso questo percorso, abbiano acquisito un peso. Vincere la difficoltà di chiedere aiuto credo sia un traguardo per sé ancor prima che per gli altri, perché significa concedersi una possibilità di diventare più consapevoli e padroni della propria vita; lasciarsi trascinare dalla forza negativa e essere in balia degli impulsi che non fanno che farti del male, ti porta a non vivere tutto quello che ogni giorno hai davanti. Io credo che la difficoltà principale nello scegliere di chiedere aiuto sia la paura che gli altri prendano in mano la nostra vita: ora ho capito che chi ci aiuta è lì per darci gli strumenti per riprenderla in mano. Nessuno si può sostituire a noi, e solo se abbiamo qualcuno che ci fa vedere quello che siamo, quello che possiamo fare e quello che abbiamo dentro – perché la lente della malattia ci ha offuscato e ci ha annebbiato la vista, non permettendoci di vederlo – possiamo prendere in mano la situazione, e fare una scelta di vita più consapevole. Nel corso dei mesi ho capito che stavo andando nella direzione in cui la malattia mi stava trascinando e che, a un certo punto, ero ad una sorta di impasse: continuare verso il buio – cosa che, giorno dopo giorno, mi faceva stare sempre peggio – o ascoltare chi aveva le chiavi per smuovere la situazione, per avere un’altra chance, nonostante la voce della malattia non volesse concedermela. Ci sono stati dei momenti in cui non sentivo veramente la forza di fare, dire e pensare a nulla, e se non avessi avuto al mio fianco qualcuno pronto ad aiutarmi a capire quanto avessi bisogno di pensare e fare qualcosa, e l’effettiva importanza di quel qualcosa, mi sarei persa.
Sembra che trovi molto utile il fatto di raccontarti e parlare, non sembri avere delle difficoltà. Qual è la tua motivazione in questo? Pensi possa essere qualcosa di utile anche per gli altri?
L’ho capito soprattutto negli ultimi mesi: penso sia utile per me, perché mi permette di ascoltarmi di più e di arrivare a capirmi meglio, e per gli altri, perché – lo vedo anche dal mio punto di vista – quando leggo quello che scrivono le altre ragazze, anche attraverso i social network, è facile trovare dei punti sui quali confrontarsi. Quando ci si riconosce in qualcosa ci si sente un po’ meno soli, e quando si legge di qualcuno che ce l’ha fatta, che ha raggiunto anche solo un piccolo traguardo quotidiano, si ritrova la forza per andare avanti e per lottare. Credo sia importante darsi una mano a vicenda perché solo chi lo vive in prima persona può capire veramente, fino in fondo, che cosa significa lottare ogni giorno contro questo impulso. Proprio perché è difficile trovare delle guide esperte che capiscano di cosa una persona ha bisogno, farsi forza a vicenda può dare quello stimolo in più per impegnarsi, e per continuare a seguire quelle guide una volta che si è scelto di affidarvisi. Penso che, se tutto quello che ho fatto, sto facendo e farò può essere utile per gli altri, questa cosa mi può rendere felice, perché credo che quello di cui più si ha bisogno in questa malattia è sentirsi meno soli. Io, quando leggo le storie di altre persone, mi sento un po’ meno sola, e al tempo stesso capisco che è qualcosa con cui si può convivere quotidianamente. A volte senti la voglia di mollare tutto, e invece ti rendi conto che tante altre persone stanno lottando, stanno vivendo la sofferenza, però arrivano a conviverci, e tu non puoi essere da meno, perché se sei al mondo un motivo c’è, un diritto a starci devi avercelo.